Francesco Lombardi

La decisione del presidente Trump di ritirarsi dall’accordo sui missili nucleari di corto e medio raggio, a suo tempo sottoscritto da Ronald Reagan e Michail Gorbačëv, ha riaperto il dibattito sul ruolo delle armi atomiche nell’agone internazionale. Un dibattito, in realtà, mai sopitosi tra gli addetti ai lavori e nelle cancellerie dei principali paesi del Pianeta. Recedendo dall’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (INF) del 1987, Trump da mano libera a se stesso ed ai russi di dispiegare missili terrestri in grado di raggiungere obiettivi strategici prima che l’allarme lanciato dai sistemi di controllo possa concretizzare reazioni efficaci. La scelta statunitense, formalizzata alla fine di gennaio e che dispiegherà i suoi effetti, come previsto nelle clausole del trattato, sei medi dopo, pare dettata da varie ragioni, in particolare dalla volontà di spingere anche altri paesi dotati di armi atomiche verso un accordo ora limitato solamente a USA e Russia, innanzitutto la Cina. Inoltre, tale mossa pare anche inserirsi nella nuova corsa tecnico-scientifica avviata dall’inquilino della Casa Bianca alla ricerca di un primato tecnologico sui competitor internazionali e di una egemonia che negli anni recenti è stata fortemente insidiata. Da un lato, infatti, Putin ha dato slancio al proprio apparato militare, con nuovi efficienti strumenti, tesaurizzando anche le esperienze realizzate nei teatri mediorientali, dall’altro, l’Impero del Dragone sta ampliando significativamente dimensioni e capacità del proprio strumento militare, con riguardo anche alle forze nucleari (secondo le fonti più autorevoli dispone di 280 testate e circa 150 missili, un terzo dei quali in grado di raggiungere il territorio statunitense). Dopo la scelta americana di abbandonare il trattato INF, soprattutto in Europa in molti hanno parlato di una nuova corsa al nucleare, concentrando le analisi, le riflessioni ed i pareri sul significato e sui limiti di tale accordo tra USA e Russia (prima URSS). Eppure, al grande pubblico è meno noto il documento, stavolta di caratura universale, sottoscritto alle Nazione Unite nel settembre del 2017, il trattato per la proibizione delle armi nucleari. Un accordo che è valso, nel 2017, il Premio Nobel per la pace all’Organizzazione promotrice (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons). Tale trattato vuole proibire agli stati firmatari di sviluppare, trasferire o ricevere le armi nucleari, utilizzarle o autorizzarne qualsiasi dislocazione, installazione o spiegamento sul loro territorio; assistere o cercare assistenza in qualsiasi attività proibite dal trattato. In breve, il fine nobile è di liberare l’intero Pianeta da qualsiasi minaccia atomica, effettiva o potenziale. Uno scopo condivisibile che però si è scontrato con il crudo realismo che contraddistingue la realtà internazionale. Nessuno dei paesi in possesso di armi atomiche, né quelli che ospitano tali tipi di ordigni o la cui difesa è garantita da alleanze con stati nucleari (come ad esempio l’Italia), hanno sottoscritto il trattato ed in molti casi non hanno neppure partecipato alla stesura del testo. La motivazione è evidente: nessuno dei paesi che usufruiscono, in modo diretto od indiretto, della sicurezza garantita da armi nucleari intende rinunciare a tale assicurazione. Del resto, tale situazione era ed è nota anche ai promotori di questo accordo ma l’intento è comunque quello di avviare un dibattito in merito, destinato certamente a protrarsi nel tempo, con possibili pressioni continue e crescenti delle opinioni pubbliche sui governi affinché si giunga, in un futuro non lontano, o almeno non lontanissimo, ad un mondo libero da armi nucleari. Anche se, è da ritenere che, fintanto che la struttura delle relazioni internazionali conserverà la configurazione attuale, è difficile che uno stato rinunci alla disponibilità di armamenti atomici ed al peso politico (prima ancora che militare) che ciò garantisce. Se però la campagna per l’abolizione totale delle armi nucleari punta alla eradicazione dello “strumento”, altrettanta importanza e non minori effetti potrebbe sortire un processo che miri alle “cause”. Infatti, il fenomeno guerra, almeno nei suoi aspetti violenti, è sempre meno “digerito” dalle società liberali e, pertanto, un mondo dove i valori liberali compenetrino le varie realtà politiche e sociali avrebbe meno propensione all’uso della violenza come strumento di relazioni internazionali. Peraltro, i valori liberali fanno indubbiamente da traino a quelli democratici, e se è storicamente evidente la minore tendenza delle democrazie al coinvolgimento bellico, appare palese il nesso tra liberalità e pace; almeno negli aspetti relativi ai modi con cui è stata fino ad ora sperimentato il fenomeno guerra. In breve, tornando al confronto tra strumenti e cause, accanto alla commendevole iniziativa in atto alle Nazioni Unite per un bando totale delle armi nucleari, apparirebbe altrettanto interessante, e foriera di significativi risultati, una campagna internazionale per la promozione dei valori liberali, capace di innescare spinte popolari (ed a cascata governative) verso valori universali. Una campagna che, se promossa nei più autorevoli consessi internazionali, godrebbe di quelle spinte sociali in grado di produrre, nel tempo, varianti ai sistemi ed alle relazioni tra stati, entrando magari prima nelle coscienze e poi nelle costituzioni. Una iniziativa dai contenuti utopici, ne siamo consapevoli, ma non meno utopici del trattato per un mondo senza armi nucleari; un progetto il cui fine, però, sarebbe un avanzamento non solo sociale ed economico, ma di autentica civiltà.

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