Un male oscuro affligge la politica di questo Paese: il populismo. Si tratta di quell’atteggiamento politico il cui scopo è quello di raccogliere consensi facendo leva sul malcontento e sull’insoddisfazione, sulle paure e sui timori delle persone, sugli istinti più beceri e meschini, nonché sull’ignoranza di una parte di popolazione, proponendo, al tempo stesso, delle soluzioni facili, immediate, in grado di riscuotere la simpatia e l’approvazione di una vasta fascia di elettorato e, non di rado, del tutto impraticabili.
In politica – si sa – nulla è facile. Governare un Paese, checché ne dicano i demagoghi, non è come amministrare una casa o un condominio: è un compito che richiede grande competenza e capacità di misurarsi con le sfide estremamente complesse dinanzi alle quali ci pongono la società e il mondo di oggi. No, la politica non è cosa alla portata di tutti, ma solo di coloro che alla passione e alle idee uniscono la conoscenza e il senso pratico. Le idee servono a poco se non si sa come realizzarle e se non si posseggono gli strumenti necessari per farlo.
La malattia populista, che ha stravolto gli equilibri della politica nazionale, europea e finanche mondiale, porta avanti la tesi opposta. Per i populisti la politica si basa sull’improvvisazione, sulla disperata ricerca dell’approvazione popolare e si riduce a una questione di voti e sondaggi. Se portare avanti una determinata istanza può mettere nelle condizioni di attirare un maggior consenso – indipendentemente da quanto possa essere ragionevole, moralmente degna e vantaggiosa – è pressoché certo che il populista sarà in prima linea per essa: almeno fino a quando l’opinione pubblica non sarà diventata sensibile ad altre problematiche. Il populismo, insomma, è l’antitesi della politica. La politica ha come fine il benessere della “polis”; il populismo solo quello dei populisti stessi, che non sono altro che degli affaristi (nell’accezione dispregiativa del termine) che speculano sulle paure, sull’ignoranza e sulla rabbia delle persone per assicurarsi una posizione, un prestigio e un potere personale che, diversamente, non potrebbero nemmeno pensare di avere.
L’Italia sembra essere uno dei Paesi maggiormente sensibile ai richiami di questo modo di (non) fare politica. Tant’è vero che l’Italia è probabilmente l’unica realtà dove il numero dei movimenti e delle forze populiste supera quello delle forze istituzionali. Senza tenere in considerazione le sigle extra-parlamentari (Potere al Popolo, Partito Comunista, Casapound, Forza Nuova e simili), o quelle che si rifanno al più becero cretinismo controculturale di stampo “paleo-grillino” (tipo Italexit di Paragone o Alternativa C’è), in Italia ci sono due forze populiste in Parlamento e al Governo: la Lega e il Movimento Cinque Stelle.
Ora, cosa voglia dire essere governati dai demagoghi lo abbiamo sperimentato tra il marzo del 2018 e l’agosto del 2019, durante la desolante esperienza del governo “giallo-verde”, o anche Conte Uno. Abbiamo assistito a manifestazioni parossistiche di incompetenza elevata a formula politica, di improvvisazione e avventurismo senza precedenti, di soluzioni che si sono rivelate peggio dei problemi che volevano risolvere. Quello di Lega e Cinque Stelle è stato un vero e proprio governo della “fantasia al potere”, in cui due forze antisistema hanno cercato di allearsi contro le istituzioni e di rovesciare completamente ogni principio di buonsenso e di responsabilità nei riguardi della cittadinanza e dello Stato.
Soldi elargiti a pioggia mediante mancette di cittadinanza, i cui destinatari, come stiamo scoprendo da ormai tre anni a questa parte, non avevano alcun diritto di ricevere dei sostegni o delle integrazioni al reddito. Una controriforma delle pensioni varata senza alcun criterio economico che non fossero i deliri dei consulenti economici leghisti, che ha dimostrato di non funzionare e di non essere sostenibile. Una politica estera che ha reso l’Italia un’emarginata a livello europeo, che ha incrinato i rapporti con gli Stati Uniti e che ci ha pericolosamente avvicinato alle autocrazie come quella russa o quella cinese. Una politica migratoria priva di qualsivoglia spessore e strategia che non fosse quella di lasciare le navi cariche di migranti a un chilometro dal porto per una settimana, salvo poi farli sbarcare e doverli comunque trasferire in qualche centro d’accoglienza per espletare le pratiche di identificazione e accertamento dello status. Una politica fiscale che pretendeva di tagliare le tasse senza tagliare la spesa pubblica, ma aumentando il debito: che è un po’ come dire che quello che non si paga oggi lo si pagherà il doppio domani, un vero e proprio nonsenso. Una politica economica semplicemente catastrofica, animata da logiche stataliste, che se fosse proseguita oltre avrebbe certamente portato questo Paese al fallimento. Questo è quello che il populismo sa fare bene: distruggere ogni cosa facendo credere di avere in mano la soluzione a tutti i problemi ed eventualmente scaricando su altri la colpa dei propri fallimenti, aizzando la popolazione contro coloro che vengono additati come responsabili e alimentando così la spirale del populismo stesso, che diventa un circolo vizioso.
Il governo di Mario Draghi è stata una vera e propria boccata d’ossigeno per questo Paese: stavamo annegando nel mare della demagogia salviniana e contiana, ed ecco che, all’improvviso, abbiamo ricominciato a respirare affidando il premierato a uno che – cosa tutt’altro che frequente in questo Paese – sa perfettamente come muoversi e cosa fare. Soprattutto, il governo di Mario Draghi ha dimostrato: primo, che la soluzione ai problemi non sta negli slogan e nei proclami spacconi, né nei decreti campati per aria e varati senza alcun criterio logico che non sia quello di offrire delle risposte rapide e immediate a qualsivoglia rivendicazione o pretesa popolare; secondo, che il governo è un affare “da grandi”, da persone esperte, competenti e mature, non da adolescenti in cerca di like su Facebook o di follower su Instagram; terzo, che non sempre ciò che è benefico, vantaggioso e necessario per il Paese incontra l’approvazione popolare o viene adeguatamente compreso dalla cittadinanza, ma la ragion di Stato deve comunque prevalere e la politica a volte è chiamata a compiere scelte impopolari ma del tutto imprescindibili per il bene della comunità. Come diceva Margaret Thatcher a coloro che le facevano notare la scarsa simpatia di cui godevano le sue politiche economiche presso i cittadini inglesi: <<La medicina è amara, ma il paziente deve prenderla se vuole sopravvivere.>>
Quest’ultima considerazione ci porta all’attualità. I due principali partiti populisti italiani hanno visto fortemente ridimensionati i loro consensi, specialmente il Movimento Cinque Stelle. Per senso di responsabilità – dicono – hanno scelto di appoggiare il governo Draghi. Ora che iniziano a realizzare che il loro elettorato non ha mai digerito del tutto questa scelta e che inizia ad abbandonarli – da cui il calo di consensi riportato da tutti i sondaggi – cercano una scusa per mettere fine a quest’esperimento e recuperare quei voti persi negli ultimi anni. Quale scusa migliore della guerra?
Salvini ha messo da parte la retorica anti-immigrazione e “pistolera” per convertirsi a un pacifismo simil-francescano che rifiuta l’uso della armi e che spinge per riallacciare i rapporti con Mosca; mentre Conte rispolvera a sua volta il pacifismo sessantottino delle origini del movimento pentastellato e, con esso, anche l’idea della “decrescita felice” a base di ambientalismo miope e ideologico e di retorica pauperista. Ora, non c’è dubbio che i due leader abbiano capito che una parte considerevole di italiani non è disposta a correre rischi o ad affrontare dei sacrifici per Kiev: una parte di italiani – inutile negarlo – sta dalla parte di Putin o, perlomeno, si attesta su posizioni non interventiste, seguendo la logica del “farsi gli affari propri”; e l’altra parte di italiani, che invece guarda con favore alla decisione del governo Draghi di fornire assistenza militare all’Ucraina, di rafforzare i rapporti con gli Usa e di sanzionare la Russia di concerto con gli altri partner europei, di certo non voterebbe mai né Salvini, né Conte. Perché? Perché è l’Italia responsabile e lungimirante; l’Italia che crede nel coraggio e nelle potenzialità di questo Paese; l’Italia che vuole essere protagonista in Europa e nel mondo, che non vuole essere isolata, che non ha paura delle sfide della contemporaneità, che vuole vivere di futuro e non di passato e di nostalgie; l’Italia che vuole farcela e che, invece di piangersi continuamente addosso, di lamentarsi dei problemi, si rimbocca le maniche e cerca di trovare delle soluzioni concrete. Chiaramente, non è questa l’Italia di Conte e Salvini, ma è proprio su questa Italia che le forze istituzionali devono puntare.
La tradizionale divisione in “destra” e “sinistra” è ormai sormontata, appartiene al passato, a un mondo che non esiste più: un mondo in cui c’era un alto livello di ideologizzazione delle masse e della dialettica politica. Lo schema subentrato a quello classico, la sfida che caratterizzerà il futuro della politica e della democrazia, è proprio tra forze populiste e forze liberaldemocratiche o istituzionali. Perché sarà in gioco la democrazia? Perché una democrazia in mano ai populisti non resta mai tale, ma degenera sempre in demagogia – cioè in quella forma di governo dove i governanti sono sostanzialmente schiavi delle masse e delle loro pretese e in cui, pur di conservare la loro approvazione, sono disposti a concedere qualunque cosa, indipendentemente da quanto possa essere assurda o deleteria – o in democratura – vale a dire, in quella forma di governo in cui, nonostante si svolgano periodiche consultazioni elettorali, le libertà e i diritti sono fortemente compressi, l’opposizione ha vita particolarmente dura e il governo agisce senza limiti e in maniera perlopiù arbitraria.
Di conseguenza, è inevitabile che le forze che saranno chiamate a opporsi alla minaccia populista saranno quelle liberali, socialdemocratiche, riformiste, popolari e patriottico-repubblicane (laddove patriottismo vuol dire volere il meglio per l’Italia, non inveire contro l’Unione Europea, voler consegnare il Paese alle autocrazie o scadere in un nazionalismo macchiettistico e fuori tempo). Quello che serve all’Italia, in questo momento, è un vero e proprio “fronte della libertà e della democrazia”, un “partito liberaldemocratico nazionale”, un cartello elettorale che unisca queste tradizioni politiche, una “coalizione di volenterosi” fedeli alle istituzioni che riesca a radunare le forze dell’Italia migliore – quella responsabile, che lavora seriamente, che studia, che si mette in gioco, che crede nella serietà, nelle istituzioni e nella libertà – e che riesca a mettere fuori gioco i demagoghi di tutti i partiti e i colori politici.
È tempo di cominciare a pensare più in grande rispetto allo schema “centro-destra” e “centro-sinistra”: categorie vetuste e ormai prive di significato. All’interno dell’uno e dell’altro schieramento convivono difficoltosamente l’anima responsabile e quella demagogica: in quasi tutti i partiti (persino nella Lega e nel Movimento Cinque Stelle) ci sono delle “anime” che, se minoritarie, non condividono l’avventatezza e l’irresponsabilità dei leader o, se maggioritarie, manifestano una sempre più viva insofferenza per gli incoscienti coi quali hanno a che fare. Non c’è ragione, allora, di perpetuare una formula politica che ha dimostrato di non funzionare e che condanna il Paese all’immobilismo e all’instabilità cronica, dal momento che, al governo della nazione, le forze o le “anime” responsabili trovano sempre un’enorme difficoltà nel portare a termine le riforme necessarie a questo Paese a causa dell’opposizione e dei ricatti delle forze o delle “anime” demagogiche, che invece pensano solo a come guadagnare consenso e a farsi applaudire al prossimo comizio. Questo è il momento di voltare pagina e di unirsi per il bene dell’Italia.
Lo schema che bisogna seguire è più o meno quello che ha caratterizzato la politica italiana per un lunghissimo periodo di tempo: una grande coalizione tra forze di sistema e istituzionali che assieme riescono a governare, a fare le riforme necessarie e ad emarginare gli opposti estremismi, condannandoli alla marginalità e all’irrilevanza nelle decisioni politiche.
In questo scenario, possiamo già immaginare i populisti inveire contro “il sistema” accusandolo di volersi autoconservare e di essere disposto a tutto per riuscirci; imprecare contro le “ammucchiate” e chiamare il popolo sovrano alla rivolta contro i “nemici della democrazia”, contro i servi dei “poteri forti”. Sono fin troppo prevedibili. Sarà a quel punto che il fronteliberaldemocratico dovrà mostrarsi all’altezza della sfida populista, riuscendo a essere “popolare” – vale a dire, mostrandosi vicino alla cittadinanza, empatico coi suoi bisogni e pronto ad adottare dei provvedimenti concreti – senza scadere nella demagogia propria dell’avversario.
La sfida più grande sarà quella di dare spiegazioni alle persone, di informarle, di renderle partecipi dei motivi che spingono ad agire in un determinato senso piuttosto che nell’altro, di far capire loro in cosa consiste veramente il bene del Paese e che, non di rado, la sua realizzazione richiede impegno e sacrificio. In fin dei conti, è questo l’antidoto più potente al veleno della demagogia, il vaccino contro il virus del populismo: informare le persone, renderle consapevoli, abituarle a ragionare con la testa, responsabilizzarle facendo capire loro che il destino della “polis” dipende anzitutto da chi elegge i governanti. Il populismo prospera sull’ignoranza, sulla paura e sulla rabbia. Per contro, la liberaldemocrazia acquisisce vigore dove c’è coscienza civile, prudenza, ragionevolezza e capacità di discernimento.
L’unione in un fronte liberaldemocratico parte da un’opera “contropropagandistica” rispetto alla narrazione populista, volta a smontare sistematicamente le sue menzogne, a evidenziare come i rimedi proposti dalle forze demagogiche sono peggio dei mali che vorrebbero curare. Si, anche le forze liberaldemocratiche devono avere una “fabbrica del consenso” – se vogliamo vederla in quest’ottica – e devono saper battere i populisti sul loro stesso terreno. Con la differenza che i leader liberali e democratici sono loro stessi artefici della loro approvazione, sono capaci di convertire le persone alle loro idee, di portarle sulle loro posizioni, di far capire loro che si tratta di concezioni giuste. Al contrario, i “leader di cartone” passano la vita a conformarsi agli umori delle masse, all’opinione dominante in quel particolare momento e ad appiattirsi sulle aspettative della popolazione. Il motivo di ciò è che sono fondamentalmente privi di idee e di prospettive, come di valori, di conoscenza e di senso morale: tutta la loro proposta politica si riduce all’improvvisazione e all’avventurismo. Laddove la demagogia semina confusione, caos e divisione, la liberaldemocrazia deve saper portare chiarezza, ordine e unità.
Bisogna liberare questo Paese dal populismo. La vera e più importante libertà di cui l’Italia ha bisogno è proprio quella dalla demagogia, perché fin quando questa concezione, questo modo di (non) fare politica e di malamministrare la cosa pubblica non sarà stato sconfitto, questo Paese sarà condannato all’inefficienza e all’immobilismo. Molte sono le riforme di cui questa nazione ha bisogno, a cominciare da quelle economiche, per rendere l’Italia una realtà davvero dinamica, competitiva e autenticamente di mercato: ma nessuna di queste potrà essere portata a termine se prima non verrà disarticolata la strategia populista. Come fare? Dimostrando che il populismo non può mai essere la risposta alle problematiche di un Paese e, soprattutto, smascherando quelli che sono i veri obbiettivi dei leader populisti. Nel caso dell’economia: le ricette dei demagoghi non fanno che aggravare una situazione già precaria e, nel medio-lungo periodo, sono destinate a devastare le finanze pubbliche, a generare crisi e a condannare il Paese alla stagnazione.
Un esempio ancora più concreto viene dal posizionamento dell’Italia nel conflitto russo-ucraino. La demagogia “giallo-verde” dice di volere la pace, chiede a gran voce il disarmo e diffida il governo italiano dall’adottare una postura belligerante a rimorchio degli Stati Uniti. Posizioni dettate dalla spontaneità o dagli stretti legami tra queste forze politiche e la Russia putiniana? Questo ci fa capire che la pace che i populisti intendono è, in realtà, una resa a Putin e che il disarmo di cui parlano – unito all’antiamericanismo becero, qualunquista e irriconoscente nei riguardi di una nazione alla quale dobbiamo davvero moltissimo – è solo un modo per spianare il cammino all’autocrate di Mosca verso il suo vero obbiettivo, che è quello di imporre il giogo russo a tutti i popoli del Vecchio Continente, incluso il nostro: cosa che ha provato a fare più di una volta, sia pure senza ricorrere alle armi, grazie alla disinformazione che ha avvantaggiato le forze antisistema e alla connivenza o all’ingenuità dei governanti. Questo ci fa capire che non è una questione di pragmatismo, di tenere conto anche delle ragioni dell’economia, oltre che di quelle della geopolitica, come hanno sostenuto gli “avvocati” del pacifismo populista: se così fosse, si lavorerebbe per attutire il colpo, per trovare delle soluzioni alternative, non per omettere di fare quello che è necessario proprio per far desistere l’aggressore, per ridimensionare le sue capacità offensive e per impedirgli di riprovarci in futuro. Le sanzioni hanno degli effetti anche sulle nostre economie, ma sarebbe peggio se non ci fossero: perché la libertà economica non può essere separata da quella civile e politica.
Ciò dimostra che le soluzioni populiste sono peggio dei problemi: se c’è una guerra in cui è in gioco il futuro delle democrazie occidentali e quello di una nazione che è stata aggredita proprio perché democratica, allora non abbiamo altra scelta che combattere, militarmente ed economicamente. Non ha senso invocare la diplomazia se dall’altra parte si spara, men che meno stracciarsi le vesti in nome della pace, se chi ha voluto la guerra non ha alcuna intenzione di fermarsi finché non avrà ottenuto quello che vuole o non sarà stato sconfitto.
Se seguissimo la strategia indicata dal “bipopulismo” salviniano e contiano, dovremmo abbandonare l’Ucraina al suo destino, lasciare che Putin se ne impadronisca e che la tirannia fascista del Cremlino dilaghi progressivamente in tutta Europa cancellando il nostro mondo e i nostri valori. Nel frattempo, l’Italia verrebbe isolata dall’Europa – come sta avvenendo con l’Ungheria, che di fatto è già una colonia russa governata da un premier che sta dimostrando di essere il fantoccio del Cremlino – si incrinerebbero i rapporti con gli Stati Uniti e in men che non si dica finiremmo sotto l’orbita di Mosca. Il cretinismo populista ci farebbe perdere la faccia e il rispetto a livello internazionale, minerebbe il nostro prestigio e, soprattutto, ci getterebbe tra le braccia di una delle più pericolose e feroci autocrazie del mondo.
Ciò dimostra che il populismo è una minaccia e che deve essere fermato, poiché esso si oppone alla libertà e alla democrazia, per le quali abbiamo lottato troppo duramente e che amiamo tutti con troppa passione, per accettare l’idea di perderle: specie se a causa dell’incompetenza, dell’inettitudine e della follia dei demagoghi.
Questo è essenzialmente il motivo per cui le forze liberaldemocratiche devono unirsi. Tutto si riduce a una serie di semplici domande: cosa voglio per il mio Paese? Come immagino l’Italia tra vent’anni? Voglio che continui a essere una democrazia liberale saldamente inserita nel contesto occidentale; o preferirei vederla ridotta a un protettorato russo, una specie di “Bielloitalia”, governata da uno come Lukaschenko o come Orban, ossia da dei pupazzi che prendono ordini da un capo straniero, che reprimono ogni manifestazione di dissenso rispetto alla loro linea e che hanno privato i cittadini delle loro libertà e dei loro diritti fondamentali? Voglio che l’Italia sia un Paese prospero, economicamente dinamico, in cui tutti vorrebbero investire e, nell’ambito europeo, capace di competere a livello globale; oppure voglio un’Italia povera, caratterizzata dalla disoccupazione e dalla stagnazione, dalla quale le imprese e i cervelli migliori scappano e in cui tutto quello che la politica ha da offrire sono delle scempiaggini anti-economiche, come il reddito di cittadinanza o quota 100? Voglio un’Italia che sia tra i padri fondatori dei futuri Stati Uniti d’Europa; o un’Italia isolata e, in un contesto globale di scontro e rivalità tra super-potenze, del tutto ininfluente e condannata a eseguire gli ordini di qualcun altro?
Le forze liberaldemocratiche devono riuscire a dimostrare che l’esito della ricetta populista applicata alla geopolitica è esattamente questo: quell’isolamento internazionale dell’Italia che la farebbe finire nelle fauci dei russi e dei cinesi. Proprio come devono riuscire a dimostrare che la soluzione ai problemi economici non è quella di innalzare il debito pubblico per finanziare misure destinate a produrre benefici marginali e di breve durata, né quello di incoraggiare le persone a restare inoperose e improduttive mediante sussidi e mancette varie; che la soluzione all’annosa questione delle migrazioni è quella di trovare una strategia europea per il controllo dei flussi e che, più in generale, il nostro futuro è un’integrazione sempre maggiore fino a raggiungere la nascita degli agognati Stati Uniti d’Europa; che il miglioramento delle condizioni di vita di un Paese passa dall’efficenza dei servizi e dall’elevato livello di cultura e di consapevolezza della popolazione.
Non sarà semplice, ovviamente. Quella contro i populisti è una guerra culturale e politica, proprio come quella contro le autocrazie è una guerra economica e militare. In entrambi i casi, si deciderà quello che saremo negli anni avvenire. Gli ucraini stanno combattendo per riprendersi il loro Paese e per cacciare i russi invasori dalla loro terra. Noi dobbiamo sostenerli e, a nostra volta, combattere all’interno dei nostri Paesi per respingere l’offensiva dei populisti complici dei regimi autocratici, che vorrebbero indebolirci, renderci delle colonie di quei regimi e condurci al fallimento economico e alla decadenza morale e culturale.
Gabriele Menotti
(Le opinioni dell’autore sono personali)