Il Presidente Draghi ha citato il modello danese come riferimento per la sua riforma fiscale in Italia sostenendo anche e giustamente come il nostro sistema sia divenuto farraginoso, difficile e spesso ingiusto perché dopo la riforma del 1972 per le imposte indirette e del 1973 per le imposte dirette si sia proceduto sempre per interventi singoli, occasionali, spesso emergenziali o sulla base di pressioni di questo o quel gruppo sociale, questo o quel territorio, questa o quella esigenza e quindi non senza mai una visione globale. Negli ultimi decenni poi le modifiche sono avvenute quasi esclusivamente per emergenze contingenti o per esigenze elettorali pre o post elezioni. Sempre Draghi nel suo programma di legislatura ci dice che non prevede l’introduzione di alcuna patrimoniale e nemmeno aumenti di imposte.  Queste promesse citate molto chiaramente nel programma ci fanno sorgere però qualche dubbio sulla effettiva capacità di essere mantenute o sulla coerenza delle tesi contenute nelprogramma rispetto alle attese degli elettori. 

Ma andiamo per ordine e vediamo di cosa stiamo parlando. In Danimarca nel 2008 venne nominata una Commissione di esperti per rivedere l’intero sistema fiscale che, incontrate le diverse parti sociali, fu poi elaborato e introdotto nel febbraio 2009 dal Premier Rasmussen. Il sistema fiscale danese, molto sinteticamente, prevede per quanto riguarda le imposte sui redditi di  lavoro, quattro imposte: un’imposta statale, una comunale, un contributo al mercato del lavoro (c.d. Am-Tax) e un’imposta ecclesiastica facoltativa. Le tre imposte sommate (esclusa la tassa ecclesiastica) prevedono una tassazione che parte dal 38% che si innalza poi fino a raggiungere il 55,8% sui redditi superiori ai 60mila euro. Sui redditi imponibili, come in Italia, sono poi riconosciute esenzioni per i redditi fino a circa 6mila euro e detrazioni ai lavoratori dipendenti fino al 10,5% del reddito con un massimo di circa 5mila euro. 

Per quanto riguarda gli altri redditi:

• I redditi da capitale sono tassati al 27% fino a circa 7.500 euro e al 42% oltre mentre i dividendi sono in genere tassati 27% o 22% a seconda del soggetto percettore.

• I redditi delle società sono gravati da una aliquota del 22%.

• Gli immobili sono tassati con aliquota all’1% fino a circa 400.000 euro e al 3% sul valore eccedente. L’IVA è al 25%.

Per completezza di informazione vediamo alcuni confronti sommari con la situazione nazionale. In Italia le aliquote irpef arrivano ad un massimo del 43% sui redditi superiori a 75mila euro all’interno dei quali vengono sommati, in varia misura e con varie detrazioni, i diversi redditi da qualsiasi fonte provengano. Il reddito delle società è gravato da una imposta del 24%, gli immobili sono tassati in varia misura sia con rendite catastali sulle quali grava l’irpef e l’ires sia con le imposte comunali imis e imupper una percentuale che complessivamente non si discosta molto dalle aliquote previste in Danimarca.  L’IVA italiana ha diverse aliquote, dalle quote esenti al 4%, al 10% fino ad un massimo del 22%. Da questo veloce confronto risulta evidente come vi siano due macroscopiche differenze, l’aliquota massima dell’irpef che in Danimarca è di quasi il 30% superiore a quella Italiana e l’aliquota massima iva che in Danimarca è superiore di quasi il 15% rispetto a quella italiana. Ma vi sono altre differenze significative che non si possono trascurare nel confronto dei dati complessivi.  Il primo è la tassazione complessiva che si ottiene dal rapporto tra il gettito fiscale complessivo e il PIL dove, in base all’Ocse, la tassazione in Danimarca raggiunge la percentuale del 46,7% mentre in Italia la tassazione si attesta al 42,1% contro una media dei Paesi Ocse del 34,2%. Dunque in base all’Ocse la tassazione in Danimarca è circa del 4% superiore a quella italiana, e cioè a conti fatti il 10% in più, che già è circa del 8% superiore allatassazione media degli altri paesi sviluppati e cioè superiore del 20%. Così analizzando possiamo dire che la pressione fiscale italiana è superiore del 20% alla media dei paesi sviluppati e quella danese è superiore di ben il 30%. Una spremitura per entrambi i cittadini già oggi di non poco conto dunque.

Quindi affermare di seguire il modello Danese e contemporaneamente voler abbassare le imposte in Italia è un evidente ossimoro a meno che non ci si riferisca al solo metodo usato in Danimarca e cioè di incaricare una Commissione per rivedere il sistema fiscale nel suo complesso. Ma allora stiamo parlando di aspetti politicamente di scarso rilievo nel programma di Draghi e viene da domandarsi il perché di questa enfasi.Sappiamo bene che in Danimarca, come in genere nei paesi del nord Europa, i servizi forniti dall’ente pubblico sono molti ma si sa anche che tutto ciò ha un costo notevole che viene pagato dai contribuenti con una tassazione molto elevata. Questi sistemi di imposte elevate a fronte di numerosi servizi forniti dall’ente pubblico sono stati impostati negli anni ’70 nei paesi nordici dell’Europa che potevano contare su nazioni con ridotta popolazione e territori molto ampi e quindi già allora non paragonabili ai grandi paesi europei (Italia, Germani, Francia e Spagna) e tutto ciò permetteva una grande stabilità sociale. L’avvento delle nuove tecnologie ha cambiato i paradigmi per la crescita economica e questa stabilità sociale, una volta molto ambita, rischia oggi di impattare negativamente sulla competitività economica di questi sistemi paese con esiti negativi per la crescita economica. Per questo motivo è ora in corso un difficile e dibattuto processo di revisione dello Stato sociale se non di riduzione selettiva.

Prof. Marcello Condini , Responsabile Dipartimento Economia e Finanza Istituto Milton Friedman 

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