di Marcello Condini

Nello scorso intervento, formulando i vari passaggi, avevamo proposto come cura per la ripartenza la più ampia opera di detassazione e di liberalizzazione mai compiuta in Italia. E quindi crediamo nella detassazione di tutte le imprese incanalando il reinvestimento degli utili in Italia e nella detassazione per i privati di tutte le spese e gli investimenti effettuati in Italia. Tutto ciò si rende possibile, vista la straordinarietà del periodo, prevedendo e accettando un minor introito nelle casse pubbliche e quindi in tutto o in parte effettuando una manovra in deficit mediante aumento del debito pubblico che in questo modo si rivolge solo ed esclusivamente a finanziare la ricrescita economica. Facciamo tesoro dell’esperienza di John Maynard Keynes, un liberale inglese e il primo economista che sosteneva, nei casi di profonde e puntuali crisi economiche e finanziarie come quelle a seguito di una guerra o, nel nostro caso, a seguito di una pandemia, la necessità di finanziare la crescita anche facendo di risorse pubbliche (anche se non necessariamente mediante debito pubblico).

Questa politica cd.Keynesiana che ebbe tanto successo fra le due guerre è stata teorizzata pragmaticamente per favorire la ripartenza delle economie europee al termine della prima guerra mondiale e cioè per fare fronte ad esigenze davvero straordinarie. Tale politica purtroppo è stata spesso stravolta nel’900 da molti sedicenti esperti economici e politicanti per giustificare politiche di mera erogazione del denaro pubblico in deficit di fronte al normale andamento dei cicli economici senza però favorire alcuna crescita. E nell’ultimo ventennio si è usato e abusato del nome di Keynes spesso a sproposito per giustificare l’applicazione di politiche economiche disparate ma attuate in situazioni e contesti profondamente differenti da quelli nei quali Keynes aveva applicata la sua politica. Ed in effetti era finalizzata solo a coltivare quel profondo senso di riconoscenza al potere e al politico necessario per garantirsi la rielezione e a null’altro. Gli esempi sono molteplici nei giorni nostri e, vanno dal reddito di cittadinanza alla nazionalizzazione delle imprese che non riescono a tenere il passo del mercato, politiche che di volta in volta vengono ammantate dei più nobili principi salvo contrastarne altri spesso ben più profondi e produrre danni di lungo termine spesso difficili da recuperare.

Ed è proprio a questo riguardo che ci preoccupa l’ennesimo tentativo di nazionalizzare una società contenuto nel Decreto Legge 18/2020 “Cura Italia” per il quale si cerca ancora una volta una giustificazione nelle politiche Keynesiane. Infatti in un articolo del decreto viene previsto che se non si farà avanti alcun compratore di Alitalia (e già se ne sono sfilati tanti per le assurde e penalizzanti richieste formulate dal ministero) si autorizza fin d’ora «la costituzione di una nuova società interamente controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze ovvero controllata da una società a prevalente partecipazione pubblica, anche indiretta» che si farà carico dei complessi aziendali di Alitalia e di Alitalia Cityliner, entrambe in amministrazione straordinaria.

E’  l’ennesimo intervento di Stato formulato per tenere in piedi una compagnia aerea decotta che già ha inghiottito molti miliardi dei contribuenti italiani e alla quale vengono subito assegnati 600milioni di euro.

La società negli ultimi trent’anni ha bruciato qualcosa come 7/8 miliardi di euro, in due anni e mezzo ha pesato sulle tasche degli italiani per ulteriori 1,5miliardi di euro e, stando ai dati dei primi giorni del 2020, brucia 2 milioni di euro al giorno. Questo ben inteso prima dell’avvento Coronavirus nel mondo. Oggi, con il calo del 90% del traffico passeggeri, è difficile ipotizzare quale sarà la perdita perché non si sa quanto durerà lo stop, quanto profondo sarà e quanto, conseguentemente, ci impiegherà a riprendersi, ma i 2milioni di euro al giorno ci sembreranno una piuma.

Ma nazionalizzare è un’idea che di tanto in tanto fa capolino in Italia, contrasta con i principi liberali e riappare tipicamente alla fine di un ciclo politico laddove gli stessi politici, terminate le idee portanti che li hanno portati al successo, ripiegano verso politiche difensive dello status quo per rimanere al potere ingraziandosi le simpatie dell’elettore. E così vediamo che, al di là della latitudine, si parla ormai senza alcun freno di nazionalizzare società e intere filiere, dalle multi utility, che sono ormai nel programma politico delle amministrazioni di Roma e di Torino, alle aziende del credito, da Bari alla Sicilia.

L’Italia è uno dei paesi al mondo dove l’ignoranza in fatto di economia e l’avversione all’iniziativa privata è una costante nel tempo e questo permette a tutti dai politici ai guappi di poter affermare e sostenere qualunque teoria nell’incapacità generale di valutare i contenuti delle diverse proposte e di chi le propone.

Ma queste operazioni di finanza creativa non hanno alcun valido motivo se non quello di utilizzare risorse pubbliche per accrescere la propria visibilità sul mercato elettorale a spese di una collettività.

Abbiamo già assistito alle difficoltà di privatizzare Alitalia sostenute dal governo Renzi e nella confusione e con la scusa della ripartenza dopo il Coronavirus ci la ritroviamo pubblica con l’ennesimo spregio ad una liberalizzazione dei sistemi di trasporto. Sarà la competizione tra vettori e la capacità organizzativa dello Stato che permetterà di valorizzare le diverse destinazioni nazionali e garantire quindi la redditività di un collegamento aeronautico ad un costo per i cittadini di molto inferiore a quello che si sosterrebbe dovendo mantenere un vettore statale.

Certo è più difficile. Ma vi è anche l’ipotesi in cui lo Stato o una Regione intervengano per garantire un contributo a quelle compagnie che vorranno dare un servizio pubblico in certe zone meno appetibili o senza redditività. E, previa gara pubblica, il costo sarà inferiore rispetto a quello che si sosterrebbe per un pari servizio attraverso il mantenimento di un carrozzone pubblico, politiche già sperimentate in altri paesi nel passato ma con scarso successo.

Dunque come Fondazione non  possiamo che sostenere una politica che proceda alla riduzione delle imposte e delle tasse sia alle imprese come alle persone fisiche anche prevedendo un maggiore deficit di bilancio strutturale. Tale maggiore capacità di spesa dei privati indotta con un finanziamento pubblico alla crescita di tipo Keynesiano che, nelle condizioni di difficoltà strutturale del bilancio italiano costituisce di fatto un bazooka, dovrà essere indirizzato con chiarezza verso le industrie nazionali e quindi chiaramente identificabile nell’obiettivo e limitato nella durata.

Non c’è spazio invece per avventure nazionalizzatrici o per il mantenimento di privilegi inaccettabili quali il reddito di cittadinanza che mal si coniugano con una società libertaria dove si vuole promuovere la premialità del merito insieme alla sopravvivenza dei più deboli.

 

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