I combattenti ucraini stanno riportando una serie di successi sul campo. Dopo il lancio della controffensiva nelle scorse settimane – mossa che era stata annunciata dal presidente Zelensky già durante l’estate – molte città sotto l’occupazione russa sono state liberate e le truppe di Mosca sono state costrette a ritirarsi. Nuovi orrori simili a quelli di Bucha, a Borodyanka o Irpin sono venuti a galla nelle città riconquistate: un esempio eclatante è quello di Izyum dove sono state scoperte fosse comuni dalle quali, almeno fino ad ora, sono stati riesumati più di quattrocento cadaveri, perlopiù di civili innocenti.

Se questo aveva fatto esultare la coalizione occidentale ed è servito a dimostrare ai pacifisti – o per meglio dire, ai russofili mascherati da operatori di pace – che l’invio di armi a Kiev aveva una sua ragion d’essere, le speranze nei riguardi della capitolazione russa e nel raggiungimento di una pace che non penalizzasse l’Ucraina, la sua sovranità e la sua integrità territoriale, si sono infrante dinanzi alle recenti decisioni del Cremlino. Si apprende che il regime russo ha deciso di arruolare i riservisti – circa trecentomila uomini – da spedire al fronte e di indire degli pseudo-referendum per l’annessione delle regioni di Donetsk, Lugansk, Zhaporizhia e Kherson, sul modello di quello tenutosi in Crimea nel 2014, per il 23 e il 27 settembre.

Ovviamente, un referendum di quel tipo è l’ennesima pagliacciata da parte di una Russia che, improvvisamente e contro ogni sua aspettativa, è stata costretta a fare i conti con le proprie debolezze e col proprio fallimento strategico. La decisione di indire delle consultazioni per decretare l’annessione dei territori orientali dell’Ucraina alla Federazione Russa, infatti, è il segno più evidente della paura che hanno al Cremlino di perdere la guerra: prospettiva che si fa sempre più concreta, data la determinazione degli ucraini e la compattezza dimostrata dalla coalizione occidentale nel sostenerli con denaro e armi. Tale scelta è semplicemente un tentativo di “aggirare l’ostacolo”: avendo preso coscienza di non poter vincere sul campo, i russi hanno pensato di indire questi referendum nel disperato tentativo di non dover essere costretti a tornare a casa a mani vuote e sconfitti dal tanto odiato Occidente e da quegli ucraini che hanno sempre considerato come dei “provincialotti ribelli” da riannettere. Ed effettivamente, in lingua russa, il significato della parola “ucraino” è proprio “provinciale”, “periferico”.

Ora, l’esito di queste consultazioni farsesche è scontato: quand’anche gli abitanti delle regioni che saranno chiamate al voto si esprimessero per restare in Ucraina, i risultati verrebbero comunque manipolati e falsati – come nella miglior tradizione del regime putiniano – in senso favorevole a Mosca. Posto che l’idea di tenere un referendum sotto occupazione militare e di far votare le persone coi mitra puntati contro è già di per sé una presa in giro. Una vera beffa, un insulto, uno sfregio al diritto internazionale, come lo ha giustamente definito il presidente Draghi.

Naturalmente – come già annunciato dai Paesi Nato e da altri Stati – l’annessione delle regioni orientali dell’Ucraina da parte della Russia non verrà mai riconosciuta. Il punto, però, è che la Russia considererebbe quei territori come parte della sua giurisdizione: questo significa che, in caso di attacco da parte degli ucraini nell’ambito della riconquista, la Russia si sentirebbe autorizzata a mettere mano anche all’arsenale nucleare, come pure annunciato da Putin nel suo discorso alla nazione del 21 settembre. Probabilmente, il Cremlino avrà pensato di garantirsi almeno il possesso sui quei territori grazie a questa trovata strategica: secondo loro, la paura di un attacco nucleare dovrebbe costituire un deterrente circa l’obbiettivo di Kiev di riprendere quelle ultime zone occupate.

Si tratta senz’altro di una decisione drastica e che porta la guerra a quel punto di svolta che per lungo tempo avevamo temuto. Sebbene fosse prevedibile una simile mossa da parte del regime russo – che su questa guerra si gioca la sua stessa sopravvivenza – forse non eravamo disposti ad ammettere a noi stessi che si sarebbe arrivati a tanto.

La resistenza ucraina si mostra tutt’altro che intimorita: il presidente Zelensky ha dichiarato che non sarà certo questo a far desistere i combattenti dai loro propositi e che l’operazione di riconquista proseguirà secondo i piani. Dure le reazioni da parte degli Usa e dell’Unione Europea, che condannano la decisione di annettere i territori occupati tramite referendum, annunciano nuove sanzioni e dichiarano che questa ennesima escalation da parte della Russia non cambierà gli impegni della coalizione occidentale a sostegno di Kiev. In particolare, da Washington fanno sapere che la minaccia nucleare da parte della Russia viene presa molto seriamente e che dalla Casa Bianca continueranno a monitorare le operazioni russe affinché possano avere sempre una risposta “adeguata”. Il capo della sicurezza nazionale, John Kirby, manda al Cremlino quello che potrebbe essere definito un “messaggio tra le righe”: una mossa simile da parte di Putin sarebbe un gesto che si ritorcerebbe immediatamente contro la Russia e che avrebbe delle “gravi conseguenze”.

Nel malaugurato caso in cui Mosca lanciasse un ordigno nucleare sul territorio ucraino – o, come paventato dall’Alto Rappresentante Ue, Josep Borrell, colpisse di proposito la centrale di Zhaporizhia – gli Stati Uniti e i suoi alleati non potrebbero restare indifferenti, non potrebbero non rispondere. Non fosse altro che un attacco del genere potrebbe avere delle ripercussioni anche sui Paesi Nato che confinano con l’Ucraina, configurandosi quindi come un’aggressione e rientrando nelle fattispecie previste dal notoarticolo quinto del trattato costitutivo dell’Alleanza. In secondo luogo, perché è evidente che un Paese che usa armi nucleari nell’ambito di una guerra di conquista agendo in palese e sprezzante violazione del diritto internazionale, è un fatto che non può essere ignorato. Le parole di Biden – che ha ammonito Putin a non intraprendere questa strada, perché gli Usa risponderebbero in maniera “eguale” e “commisurata” – e prima ancora quelle della neo-premier britannica, Liz Truss – che si è detta pronta a mettere mano all’arsenale nucleare del suo Paese nel momento in cui la Russia minacciasse la sicurezza del Regno Unito e dei suoi alleati – lasciano presagire che un eventuale attacco non convenzionale da parte di Putin riceverebbe un’immediata risposta da parte dell’Occidente.

Ovviamente, al Cremlino sono ben consapevoli di tutto questo. Sanno che il ricorso al nucleare è una via senza uscita, che è soprattutto una scelta suicida. Proprio per questo motivo, la minaccia di Putin deve essere presa esattamente per quello che è, vale a dire il gesto disperato di un dittatore psicotico ormai dalla deriva, che ha capito di aver scatenato una guerra che è risultata un “passo più lungo della gamba” e che ora si trova davanti a una scelta: capitolare, perdere la faccia e veder crollare il suo regime; oppure tentare il tutto per tutto e consegnare il suo Paese alla distruzione che deriverebbe da uno scontro nucleare con gli Stati Uniti e i suoi alleati europei. In entrambi i casi, la Russia avrebbe la peggio. Putin sa di essere stato messo all’angolo e di non avere vie d’uscita. Ovviamente, è noto che chi si trova con le spalle al muro potrebbe reagire in maniera sconsiderata: per questo bisogna stare all’erta, pur mantenendo i nervi saldi, restando lucidi ed evitando di farsi prendere dal panico. Perché, forse, è proprio quello che Putin si aspetta.

Non è la prima volta, dall’inizio del conflitto, che i russi agitano lo spauracchio del nucleare. Medvedev – sempre più simile al giullare delle corti medievali – non ha praticamente fatto altro, così i vari analisti e commentatori, esperti di sicurezza e opinionisti intervenuti nei dibattiti televisivi. Anzi, è una nenia che inizia a diventare quasi grottesca. Chi conosce le tattiche di guerra ibrida sa benissimo che un ruolo centrale – forse anche più di quello delle armi – è quello assegnato all’impatto psicologico. In Russia, poi, uno dei più fidati consiglieri di Putin, nonché uno dei personaggi chiave del regime è quell’Igor Panarin, politologo ed esperto di psicologia, che per primo ha suggerito l’impiego di questa nelle operazioni militari. Di conseguenza, potrebbe essere solo un tentativo estremo di spingere l’Occidente a desistere dall’invio di armi a Kiev e l’Ucraina stessa dal suo obbiettivo di riprendersi i territori occupati. Sarebbe plausibile considerando che – proclami propagandistici a parte – la Russia sembra aver esaurito le munizioni, nel vero senso della parola. Mosca non ha più la possibilità di portare avanti questo conflitto per lungo tempo. Ha finito i soldati e i riservisti che dovrebbero essere arruolati stanno scappando, come mostrano le immagini delle code chilometriche al confine con la Finlandia e l’esaurimento dei biglietti aerei per i Paesi limitrofi. Non ha più le risorse per produrre e far funzionare i propri tank, velivoli e droni, poiché le sanzioni hanno reso impossibile reperire le componenti tecnologiche necessarie allo scopo. Persino le armi iniziano a scarseggiare e gli “amici” cinesi non ne vogliono sapere di prendere parte, anche indirettamente, a una guerra che sta penalizzando anche loro, rifiutandosi così di rifornire Mosca. C’è poi un problema interno: la popolazione inizia a non credere più alla propaganda dei media di regime e la prospettiva di essere arruolati coattivamente per essere mandati a morire in una guerra della quale la parte non ideologizzata della popolazione russa non ha neanche compreso la necessità, né ha creduto alle fandonie sui “nazisti” ucraini e sui tentativi americani di attaccare la Russia con la complicità e il beneplacito di Kiev. Questo significa che la situazione sta sfuggendo di mano a Putin, al quale non rimane che sperare di intimorire l’Occidente, in maniera tale da spingerlo ad abbandonare la causa ucraina e smettere di rifornire la resistenza, che in tal modo potrebbe essere facilmente sopraffatta da un ultimo imponente attacco russo.

Come valutare, dunque la minaccia russa sull’uso di armi nucleari? Semplicemente, non bisogna dare a essa troppo peso, ma non bisogna neanche sottovalutarla. Bisogna prenderla per quello che è: una possibilità, forse remota, ma comunque verosimile.

Non bisogna lasciarsi intimidire, ovviamente: specialmente ora che siamo molto vicini al raggiungimento dell’obbiettivo. Se la resistenza ucraina vincesse le ultime battaglie e riuscisse a liberare le ultime città sotto occupazione, non solo la guerra finirebbe, ma ciò potrebbe anche determinare il crollo dell’autocrazia moscovita, umiliata e allo sbando: si potrebbe assistere a una specie di Euromaidan in versione russa, poiché la popolazione potrebbe improvvisamente prendere coscienza di essere stata manipolata, trascinata in un inutile bagno di sangue e in una crisi economica simile a quella degli anni Novanta, e potrebbe così dare luogo a una serie di disordini civili che le autorità non riuscirebbero a tenere sotto controllo per molto tempo. La vittoria dell’Ucraina è nel nostro interesse ed è di fondamentale importanza per la sicurezza e la stabilità del continente europeo, per cui è giusto andare fino in fondo.

Questo non significa che le minacce di Putin vadano prese a cuor leggero o che non si debba attribuire a esse alcuna importanza. Abbiamo a che fare con uno di quelli che il filosofo Hans Magnus Enzensberger definirebbe “perdente radicale”, vale a dire con uno che, umiliato e sconfitto, invece di arrendersi, come farebbe una persona normale, pone in essere atteggiamenti distruttivi e auto-distruttivi. Il perdente radicale è il kamikaze che uccide sé stesso per uccidere coloro che odia. Il perdente radicale è, in generale, colui che compie il “sommo sacrificio”, distruggendo quello che più gli sta a cuore, finanche la sua vita, pur di distruggere l’oggetto del suo odio. Questo significa che Putin potrebbe anche essere disposto a sacrificare sé stesso e il suo popolo in un conflitto nucleare con le potenze occidentali pur di non ammettere la propria sconfitta e di non arrendersi. È una possibilità che bisogna tenere da conto.

Non c’è altra soluzione che mantenere i nervi ben saldi e proseguire nella direzione percorsa finora, consapevoli dei pericoli che ciò implica ma tenendo alto il morale e restando determinati. In fin dei conti, ha ragione Zelensky quando dice che se le potenze occidentali e i patrioti che lottano per la loro terra dovessero desistere ogni volta che la Russia invoca l’uso del nucleare, allora domani Mosca potrebbe volere le Repubbliche Baltiche, un pezzo di Polonia o di Germania, o magari la Finlandia, e nessuno dovrebbe reagire per paura delle conseguenze che questo potrebbe avere. Questo, se non altro, dimostra che la paura e la scarsa determinazione delle democrazie sono esattamente quello che rende le autocrazie più forti e sufficientemente spavalde da tentare avventure militari di questo tipo. Lo ha detto Draghi all’Onu e lo dimostra la storia recente, perché se non ci fossimo mostrati deboli e insicuri già nel 2014, quando Putin invase la Crimea, e se non l’avessimo fatto sin dal momento in cui il dittatore russo iniziò a parlare di “scontro di civiltà” con l’Occidente liberale e “decadente”, portatore di “pseudo-valori”, forse a quest’ora non saremmo a questo punto.


Gabriele Minotti


(L’opinione dell’autore può non corrispondere con la posizione dell’Istituto)

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